
... Ovvero, del denaro e del potere
Da anni ormai la politica è in crisi; fra le cause più evidenti la fine della guerra fredda, la morte delle ideologie ed anche, credo, il prevalere di una cultura (quella anglosassone) refrattaria a discettare di questioni astratte. A questi fenomeni, tutti in un certo modo interconnessi, aggiungerei anche la migrazione di molte decisioni verso Bruxelles, e cioè verso una burocrazia che risponde ad un organismo non eletto (ancorché a mio parere meritorio) come la Commissione Europea. Tutti questi fattori congiurano per una riduzione del ruolo della politica come l'abbiamo tradizionalmente conosciuta.
Le nuove aristocrazie del denaro
La democrazia moderna nasce dal tentativo di limitare lo strapotere dell'aristocrazia, composta dai ricchi, cioè dalla nobiltà. Ora il cerchio in qualche misura si chiude, e si torna al punto di partenza. In tutti i paesi sviluppati occorrono ormai moltissimi soldi per essere eletti, tanto che l'Italia ha risolto il problema affidandosi, o meglio abbandonandosi, al potere del suo cittadino più ricco. Gli altri stati, anziché canzonarci, dovrebbero studiare attentamente il problema: presto la scena, sperimentata in un teatro di provincia, potrebbe replicarsi su ben altri palcoscenici.
La democrazia nelle sue forme attuali restituisce perciò il potere alla nuova aristocrazia, quella del denaro senza titoli nobiliari, titoli che peraltro da sempre sono stati venduti a chi li poteva comprare. E chissà che col tempo non tornino anche quelli, i titoli nobiliari cioè, Savoia adiuvantes.Le decisioni politiche sono connotate da un elevata presenza del fattore economico: sempre meno è concepibile un leader politico che sia totalmente digiuno di competenza in questo campo. E anche le ovvie obiezioni contrarie (Bush, Blair e molti leader europei erano e sono privi di un retroterra, di una preparazione di tipo economico) non provano molto, data la natura largamente simbolica del potere che essi esercitano, mentre il potere vero è in mano ad altri.
Così, naturalmente, il peso degli interessi economici nelle decisioni politiche si fa sempre più evidente, a volte sfacciato. D'altro canto le grandi società industriali e finanziarie hanno ormai un peso tale da rendere i governi degli stati nazionali (anche fortissimi, come gli USA), assai sottomessi nei loro confronti. Il "vecchio"caso della Enron, grande finanziatore sia dei repubblicani sia dei democratici e beneficiaria dei presunti favori del Vice Presidente Cheney, è sintomatico (e di nuovo torna quanto detto sul peso straripante del denaro nelle campagne elettorali di oggi).
Ma anche le grandi banche d'investimento, le Goldman Sachs o le Merrill Lynch della situazione, non sono da meno nella loro capacità di influenza sui governi americani, da sempre alla ricerca di ministri del tesoro che abbiano un buon rapporto con questi grandi poteri meta-costituzionali. Poteri che difatti sono trattati coi guanti bianchi dal governo: si pensi alla grande influenza delle investment banks sul mercato finanziario, che ha in più di una occasione attirato l'attenzione dei "financial regulators", da ultimo con un rapporto del "Gruppo dei 10", nel quale si prospetta, con linguaggio insolitamente chiaro per dei banchieri centrali, il pericolo che ulteriori concentrazioni nel settore dell'investment banking portino a pericolosi abusi del potere di mercato da parte dei grandi operatori.
Bisogna aggiungere che le stesse grandi banche sono finanziatori, oltre che dei candidati alle elezioni, anche delle grandi università americane, dove si forma l'intellighenzia del paese. Il fatto che la politica finanziaria dei colossi dell'economia americana debba necessariamente passare dal consenso di pochi signori, che possono concertare le proprie decisioni e condannare gli outsider alla marginalità, dovrebbe impensierire le autorità politiche americane, che invece sono distintamente assenti dalla scena; nessun governo americano ha mai osato studiare la possibilità di un'azione antitrust nei confronti di questi soggetti, capaci di estorcere alla clientela commissioni praticamente doppie rispetto a quelle vigenti in Europa, dove gli operatori locali possono far avvertire la propria pressione competitiva.
La cosa è preoccupante perché la superiorità di un sistema di mercato è fatta risalire al fatto che in un sistema siffatto le decisioni sono assunte da una miriade di soggetti, non correlati fra di loro. Se invece le grandi decisioni sono assunte da pochi soggetti che hanno fortissimi incentivi a correlarsi e a concertare le decisioni, la stessa pretesa superiorità di un sistema di mercato aperto comincia ad essere messa in dubbio. Sarebbe un sistema non poi diversissimo, concettualmente, da un sistema collettivistico, anche qui le decisioni sarebbero accentrate. Cambierebbero le motivazioni dei decisori, e non è detto che quelle delle banche di investimento siano più nobili di quelle dei soviet.
Potere del consumatoreLa contestazione nei confronti del G-8 e delle istituzioni internazionali può essere vista anche come riflesso della situazione qui tratteggiata; quando la penuria del dopoguerra è finita, e i beni si sono trovati in gran quantità, è cominciata la competizione per aggiudicarsi la spesa per consumo degli individui. Al potere di voto si è sostituito il potere del consumatore, il quale non ha ancora capito bene quel che è successo, ma ha già cominciato, istintivamente, a metabolizzare il fenomeno. In questo sistema, nel quale una società è valutata dalla Borsa per quanti abbonati ha, non ci si è ancora resi conto di quanto potere abbia il consumatore, che è l'unico che con le sue scelte conferisce a tali società il loro valore di mercato; quando Spartacus lo capirà potrà cercare di avvantaggiarsi lui del valore che oggi, con le sue scelte, si limita a regalare agli azionisti delle società. Ma uno dei difetti di questo nuovo sistema è che qui non disponiamo tutti di un voto ciascuno, bensì abbiamo tanti voti quanta è la nostra capacità di consumare. Ovvio che i più ricchi hanno più voti, la qual cosa fa a pugni con i fondamenti stessi di un sistema democratico.
La ribellione a questo andazzo è allora assai più comprensibile di quanto a prima vista possa apparire; ecco allora che, come ha scritto Richard Tomkins in un bell'articolo sul "Financial Times" del 19 maggio 2001, i mattoni lanciati contro le vetrine della McDonald esprimono forse in maniera non accettabile un'esigenza di per sé, invece, ben comprensibile. Quella cioè che le decisioni sul futuro delle persone siano prese da altre persone, legittimate a decidere dall'aver vinto una competizione elettorale indetta proprio per stabilire chi debba avere il potere di influenzare la collettività. Lungimirante considerazione che oggi vale più di ieri.

Ha senso lavorare per il mercato stupido?
di Raffaele Langone
Il mercato è l’incontro tra domanda ed offerta, tra chi consuma e chi produce. Questo meccanismo apparentemente semplice invade però la società stupidamente e superficialmente.Il mercato si basa sulla competizione, una formidabile spinta al progresso in tutti quei settori che garantiscono profitti. La competizione promuove contenuti quali efficienza, efficacia, forza e tempestività in una continua ricerca di strategie per distruggere gli ostacoli al proprio successo. Ma se dietro questa logica non vi è nessun valore o ideale se non egoismo materiale e istinto di sopravvivenza, essa non deve tenere conto della complessità della realtà e delle esigenze di tutti i suoi attori, ma solo dell’interesse particolare.

Infatti, il meccanismo di mercato non è in grado di ragionare se non in termini di convenienza: se c’è domanda di stupidità esso produrrà stupidità e se c’è domanda di contenuti esso produrrà contenuti.La drammatica stupidità del mercato in sé, si coglie osservando come l’immenso potenziale produttivo dei paesi ricchi si concentri non solo su beni superflui ma su dettagli inutili dei beni superflui; immense risorse vengono spese nel progettare e produrre inutili prodotti per soddisfare bisogni altrettanto fasulli, mentre nel mondo otto persone su dieci non hanno cibo. Le aziende produttrici sembrano un elemento alieno ed estraneo della società, come se non avessero nessuna responsabilità sociale e come se dietro a sigle e marchi non vi siano uomini in carne ed ossa, ma strane entità superiori senza scrupoli.
Oltre alla logica di mercato in sé, il motivo del dilagare della stupidità può essere attribuito a due differenti aspetti. Il primo consiste nel fatto che i profitti di mercato sono proporzionali alla quantità (più vendo più guadagno) e per raggiungere la maggior domanda possibile l’offerta produce basandosi su valori e contenuti medi affinché essi siano accessibili al maggior numero di persone possibile. La mediocrità è quindi un mezzo per ottenere quantità e quindi profitto. Il secondo aspetto per spiegare la dilagante stupidità è l’invasione delle logiche di mercato nella società, e quindi nelle relazioni tra individui.
Nella società moderna l’individuo si trova schiacciato da una duplice pressione: sul mercato del lavoro, dove in nome della competitività il capitale umano viene ridotto a input di produzione; e sul mercato dei consumi, dove l’offerta, cioè le imprese, attaccano con strumenti persuasivi invadenti la domanda potenziale creando quei bisogni fasulli che coltivano la domanda, stupida, di beni superflui. Sotto tale livello di pressione e stress una certa dose di leggera evasione non può che configurarsi come una necessaria valvola di sfogo per reagire a ritmi spesso insostenibili, ma a causa di tali pressioni l’uomo interiorizza le logiche del sistema di mercato in cui si trova immerso e si comporta sempre più come un entità economica in competizione e dedita al profitto: l’uomo-azienda o più banalmente il teleconsumatore.
Una volta che un individuo ha assorbito le logiche di mercato, egli viene coinvolto in un meccanismo dove è l’impresa a condurre la danza perversa sfruttando la persona sia come input di produzione che come consumatore. Sul mercato del lavoro, l’impresa considera i lavoratori come costi di produzione da ottimizzare, ed esige prestazioni asettiche ispirate da efficacia ed efficienza mettendo i lavoratori in competizione tra loro.
L’individuo è cosi costretto a lavorare non solo per entità economiche dedite alla produzione di beni e servizi superflui, entità che spesso per perseguire il proprio profitto ad ogni costo sono disposte a danneggiare la società e l’ambiente in cui vivono gli stessi individui. E questo avviene perché la persona si riduce a vivere nella triade lavoro-risparmio-consumo per cui il lavoro diventa un mezzo per accumulare reddito finalizzato al consumo superfluo e nulla più; il lavoro non è quindi un modo per coltivare arte e passioni o identificarsi con obiettivi e valori ma solo uno strumento per raggiungere obiettivi personali di profitto o carriera.
La competizione per il profitto costringe l’uomo ad agire in maniera veloce e tempestiva sorvolando la profondità della realtà e dedicando tempo ed energie solo a ciò che è conveniente; chiamo stupido questo meccanismo poiché esso si fonda sulla superficialità e sulla indifferenza con cui si vive tutto ciò che non è in linea con i ritmi e le esigenze di mercato dell’uomo-azienda. Sul lato dei consumi la stupidità è propria della facilità e futilità delle soddisfazioni materiali che sono di per sé superficiali come dimostra la corsa a continui nuovi miraggi imposta dalla logica usa e getta di mercato. Ma in virtù di quali valori o principi il teleconsumatore dovrebbe reagire e smettere di godere dei “piaceri della vita” limitando così la propria libertà?
La risposta è: per dare qualità alla propria vita. Infatti, nonostante le apparenze, il mercato illude, sfrutta, mette in contrasto e alla fine scarta il teleconsumatore costringendolo a una vita fredda e vuota. La qualità può essere invece trovata nell’equilibrio tra sfera personale e quella sociale, tra interesse particolare e quello generale, tra evasione e realtà e tra materialità ed idealità. E per realizzare un obiettivo tanto ambizioso la società si deve munire degli strumenti utili a non farsi usare dal meccanismo di mercato ma al contrario a sfruttarlo dove esso è in grado di creare progresso. Invece di farci manovrare come marionette da questo stupido gigante sarebbe forse meglio dotarlo di un cuore ed un cervello in modo che agisca libero ma responsabile. Il cuore ed il cervello delle donne e degli uomini oggi depressi dietro i giochi della domanda e dell’offerta.
Domanda?.. La crisi mondiale che l’umanità sta vivendo cambierà qualche cosa? Il protagonismo della politica mondiale passerà di mano? Il mercato..come cambierà?..e soprattutto come cambieranno i suoi protagonisti, imprese e CONSUMATORI?..vedremo!!
.Condividi questo articolo
